L’uomo che c’era dietro “Stoner”
Il romanzo perfetto non può nascere se non hai subito choc
[A otto anni dall’uscita, ripropongo la mia traduzione integrale dell’articolo con cui Charles J. Shields raccontava su «Tuttolibri» de «La Stampa» i temi centrali della sua biografia di John Williams pubblicata nel novembre 2016 da Fazi Editore, L’uomo che scrisse il romanzo perfetto, tradotta da me insieme a
.]| Charles J. Shields, «Ttl – La Stampa», 19 novembre 2016 |
Stamattina vi viete vestiti in armonia con la vostra personalità? È probabile di sì. E quel libro che state leggendo? Probabilmente lo avete scelto perché in qualche modo vi rende più aderenti alla persona che credete di essere.
Sono questi i gesti e le scelte abituali che facciamo ogni giorno, più o meno consapevolmente. Sono collegati al modo in cui ci presentiamo agli altri, a come vogliamo essere visti; riflettono la nostra identità. Ma l’identità è fluida, la nostra condizione e le nostre convinzioni cambiano, a volte non sono nemmeno il frutto di una scelta deliberata. Come suggerisce il titolo del romanzo che Joseph Heller pubblicò nel 1974, semplicemente È successo qualcosa.
Durante la stesura di L’uomo che scrisse il romanzo perfetto. Ritratto di John Williams, autore di Stoner, ho scoperto tre momenti in cui a Williams successe qualcosa d’importante, che cambiò la sua percezione di sé. Avvennero tutti e tre nell’infanzia e lo spinsero a domandarsi: «Chi sono?», quesito che rimane il tema centrale dei suoi tre romanzi maggiori.
Sono tre libri dalle ambientazioni molto diverse: il vecchio Ovest in Butcher’s Crossing (1960); un’università negli anni Venti in Stoner (1965); e l’antica Roma in Augustus (1972). Ma tutti sono accomunati da protagonisti alle prese con il problema di capire chi sono e in che cosa credono. Penso sia per questo che i romanzi di Williams ancora oggi compaiano nelle classifiche dei longseller: la ricerca della propria identità è il grande lavoro di una vita. Descrivere questa ricerca è l’obiettivo di una biografia.
La storia dei primi anni di vita di Williams è un racconto americano di irrequietezza, ambizione e, purtroppo, violenza.
Sua madre, Amelia Walker, aveva venticinque anni quando incontrò J.E. Jewell in Texas, a Clarksville, nel 1920. Si sposarono e nel 1922 nacque John, il loro unico figlio. Subito dopo si trasferirono a Wichita Falls, sempre in Texas, dove il boom petrolifero stava arricchendo la popolazione. Secondo i racconti di famiglia, il padre di John fu coinvolto in un giro di speculazione immobiliare e venne ucciso. Rimasta vedova, Amelia sposò un uomo più anziano di lei, di nome George Williams.
John scoprì solo a nove anni che l’uomo che considerava suo padre era in realtà il suo patrigno. Il cognome “Williams” era un’invenzione di comodo. Gli avevano mentito. Non era la persona che pensava di essere. Lo choc contribuì a una balbuzie emotiva che superò solo nella tarda adolescenza.
Una seconda rivelazione alla proiezione del film Le due città, tratto dal romanzo Racconto di due città di Dickens. Appena dodicenne, Williams ne rimase affascinato: pensò di avere di fronte una parabola con un messaggio rivolto espressamente a lui. La morale della vita redenta di Carton ai piedi della ghigliottina stava nella possibilità di diventare, grazie alla forza di volontà, il tipo di persona che si vuol essere. Diventare l’eroe della propria vita, a prescindere dal proprio passato.
La forza di questo messaggio raddoppiò qualche settimana dopo, quando l’insegnante d’inglese di Williams elogiò un suo tema sul film davanti a tutta la classe. Williams non avrebbe mai dimenticato quel momento: «Fu uno dei primi complimenti mai ricevuti per qualcosa che avessi fatto». Nel giro di un giorno, era stato elevato dalla massa ordinaria a «uno di noi molto speciale», secondo le parole di un compagno di scuola.
A diciassettenne anni Williams era un poeta pubblicato su piccole riviste che si atteggiava a novello Eugene Gant, l’eroe romantico di Angelo, guarda il passato di Thomas Wolfe. Con un fazzoletto di seta annodato al collo e i capelli lunghi alla Gant, faceva una strana impressione nel Texas colpito duramente dalla Grande Depressione. Ma stava dando prova di sé come artista, perché era quello che credeva di essere. Alla fine della Seconda guerra mondiale, dopo aver prestato servizio nell’Army Air Force, tornò negli Stati Uniti e cominciò a scrivere romanzi.
Alla stregua di Henry James, Williams insisteva sul bisogno dei personaggi di avere un’identità morale: non fissa, ma in continua ridefinizione, così da illustrare la complessità dei rapporti tra le persone. L’elemento drammatico risiedeva nell’interiorità dell’esperienza del protagonista; la trama era secondaria. Inoltre, al contrario di autori postmoderni suoi contemporanei negli anni Sessanta, Williams non fece della sperimentazione sulla struttura tradizionale del romanzo. Era convinto che i romanzi dovessero «imitare nella forma il mondo naturale»; o per dirla in altro modo: «Succede questo, e poi succede questo, e poi succede questo». Di conseguenza, non godette mai della popolarità di un Norman Mailer, un Kurt Vonnegut o un John Barth, e i suoi romanzi finirono fuori commercio poco tempo dopo la pubblicazione.
Dei tre romanzi più importanti, Stoner è l’opera migliore di Williams e la più toccante. Come Williams, Stoner è cresciuto in una fattoria e, proprio come lui, consegue un dottorato in letteratura inglese all’Università del Missouri. Il giovane Stoner incontra Edith Bostwick, figlia di un banchiere locale. È chiaro fin dall’inizio che la loro storia d’amore fa acqua da tutte le parti. Le aspettative idealizzate di Stoner sull’amore sono il risultato di un’educazione letteraria. Scrive Williams: «Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi; Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente; Elena e il radioso Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio». Ma questi sono solo simulacri d’amore. Dopo poche settimane dal matrimonio con Edith, Stoner capisce che saranno infelici perché Edith si oppone misteriosamente a tutto ciò che lui ama.
Stoner s’innamora di una specializzanda e per un certo periodo la loro relazione diventa un mondo privato in cui lui è felice, ma poi si arrende alle convenzioni sociali e la lascia andar via. Su un’altra questione, però, si rifiuta di cedere. Per difendere la professione d’insegnante, sfida un collega vendicativo e rovina la propria carriera. Negli ultimi istanti della sua vita, mentre sta morendo per una malattia terminale, Stoner guarda fuori dalla finestra, in un pomeriggio d’estate, poi «la coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato».
«Stoner sopporta troppo, accetta troppo e non lotta abbastanza», scrisse Williams a un amico, «ma se questi sono vizi, sono vizi che incarnano semplicemente il rovescio di certe virtù – virtù che gli permettono di resistere in un mondo a spese della sua felicità in un altro». Come il suo eroe dice con dolcezza a Katherine, quando la loro storia d’amore deve finire: «Almeno, fino a ora, siamo rimasti noi stessi. E sappiamo di essere… quello che siamo».
Per John Williams, conoscere se stessi era una questione di integrità, ma la vita dona questa ricompensa solo a chi è disposto ad affrontare la verità.
Traduzione di Nazzareno Mataldi
L’autore
Charles J. Shields è un biografo statunitense di romanzieri e scrittori americani del secondo Novecento. Si segnalano in particolare le sue biografie di Harper Lee (Mockingbird: A Portrait of Harper Lee, Henry Holt & Co., 2006), Kurt Vonnegut (And So It Goes: Kurt Vonnegut, A Life, Henry Holt & Co., 2011) e, per l’appunto, John Williams (The Man Who Wrote the Perfect Novel: John Williams, Stoner & the Writing Life, University of Texas Press, 2018; anteprima mondiale italiana del 2016, presso Fazi Editore, con il titolo L’uomo che scrisse il romanzo perfetto. Ritratto di John Williams, autore di Stoner).