Un giardino ci vuole
La riscoperta, anche letteraria, della bellezza e del valore – pratico e terapeutico – di orti e giardini
In estate mi è capitato di riprendere in mano un vecchio numero della rivista spagnola «Letra internacional», consorella della capostipite francese «Lettre international» e dell’italiana «Lettera internazionale», nata subito a ruota, nel 1984, e di successive edizioni europee con il medesimo nome, oggi purtroppo quasi tutte defunte.
Era il numero 64, del settembre-ottobre 1999, lo stesso da cui nell’estate del 2000 avevo tradotto per diletto un bel reportage dal Congo di Lieve Joris, poi in parte riproposto due anni fa su «Assaggi – scritture dal vero» e, infine, questo ottobre importato sull’altra mia pubblicazione su Substack, «Scritture».
Sfogliandolo e leggendo alcuni dei contributi cui all’epoca avevo prestato scarsa attenzione, mi sono soffermato in particolare su un testo del filosofo, saggista e pedagogo spagnolo José Antonio Marina, intitolato “Teoría del jardín” (Teoria del giardino). Mi è piaciuto così tanto che ne ho tradotto rapidamente alcuni passi, proponendoli su Facebook e ottenendo anche diversi like.
Pochi giorni dopo mi è poi capitato di scoprire che la scrittrice inglese Olivia Laing (pubblicata in Italia dal Saggiatore, e di cui alcuni anni fa avevo letto in originale Città sola e Viaggio a Echo Spring) ha dedicato il suo ultimo libro proprio al giardino, intitolandolo Il giardino contro il tempo (volume uscito in Italia a maggio, e riguardo al quale si può leggere una bella intervista all’autrice su «Harper’s Bazaar Italia»).
Arrivo alla settimana scorsa e, di nuovo, mi ritrovo davanti un testo – Cacophony of Bone, il secondo memoir della scrittrice nordirlandese
– dove il giardino e per estensione l’orto domestico (secondo la duplice accezione dell’inglese garden) rivestono un ruolo chiave, terapeutico, nell’anno – il primo del Covid-19 – che l’autrice trascorre in un piccolo cottage in pietra dell’Irlanda centrale, in compagnia del partner e di una cagna, tra le altre cose allestendo proprio un giardino e un orto.Fatto sta, mi rendo conto che stiamo concretamente vivendo un periodo in cui c’è una diffusa riscoperta, anche nel mondo delle lettere, della bellezza e del valore – pratico e terapeutico – di orti e giardini e in generale dello stare maggiormente a contatto con la natura. E poiché le mie origini (genitori contadini) e lo stesso mio presente (il portare avanti la piccola azienda agricola di famiglia, in parallelo al lavoro come traduttore) mi vedono fortemente legato alla terra, ciò non può che rallegrarmi.
Sotto, ripropongo allora il post estivo su Facebook sulla “Teoria del giardino” del filosofo spagnolo José Antonio Marina (in attesa di decidermi a contattarlo per avere l’autorizzazione a pubblicare l’intera traduzione, appena l’avrò portata a termine).
Ne La luna e i falò, Cesare Pavese scriveva: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Parafrasando in parte Pavese, si potrebbe però anche dire: «Un giardino ci vuole. Un giardino di cui prenderti cura, per farne il tuo piccolo paradiso».
Non sto vaneggiando: sto solo riassumendo il senso di un’ultima affascinante lettura vintage, di cui cito alcuni passi, previa rapida traduzione.
José Antonio Marina, “Teoría del jardín”, «Letra internacional», n. 64, settembre-ottobre 1999, pp. 30-33.
[…] La parola giardino deriva dalla radice indeuropea ghorto – e dal latino hortus. Dalla prima è venuto giardino, dalla seconda orto e ortensia. Mi dilungherei un altro po’ in questo albereto di parole […] per considerare una radice avestica, pairi.daêza, che significa anche ‘clausura’ e da cui è venuto il termine greco paradeisos, il parco chiuso, il giardino, il paradiso.
La Bibbia indica in Dio il primo giardiniere, e lo spiega in maniera interessante. Dopo aver creato la natura, il sole, la luna, le stelle, le piante e i loro semi, il firmamento e il mare, dopo aver creato alla fine l’uomo, «il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gn 2,8-9). Questo racconto è pieno di simboli che come giardiniere mi affascinano e emozionano. Il giardino è natura dentro la natura, ma distinta da questa. Qual è la differenza? Il giardiniere – divino o umano – aspira a convertire la natura nella casa dell’uomo. E in questa natura convertita in dimora si trovano il segreto della vita e il segreto della felicità. Sono i due alberi mitici dell’Eden.
La storia finisce male. L’uomo non riesce a scoprire questo segreto e si esilia dal giardino, esce nella natura che non è dimora, diventa selvaggio e uccide. Tutto ha cambiato di significato. Nella logica del paradiso, Dio è giardiniere e tutte le piante germogliano allegramente. Nella logica della natura, Caino, l’agricoltore, è invidioso di Abele, il pastore, e lo uccide (Gn 4,2-12). A causa del sangue versato, «il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti», è il castigo di Dio. Il giardino si è convertito in deserto.
Ma non anticipiamo gli eventi. Torniamo al giardino della vita e della conoscenza. Da dove viene questo simbolismo? Credo che il segreto del giardino, ciò che ne spiega il fascino che esercita sugli uomini da tempo immemore, vada molto al di là della sua bellezza e piacevolezza. È una teoria sulla realtà. La felicità e la conoscenza, dice, risiedono nel seguire la natura ma senza lasciarsene dominare. Consistono nell’umanizzarla. Siamo di fronte a un mito straordinario, che rinasce continuamente, in posti molto diversi, e con lo stesso significato: la triade magica: natura, felicità, conoscenza. […]
Il giardino, prolungamento della dimora, non ha la grandiosità sublime dei grandi spazi. Possiede un altro carattere che spiegherò addentrandomi di nuovo nei labirinti delle parole. C’è un termine inglese di difficile traduzione: cosiness. Viene solitamente tradotto come ‘la capacità di accogliere’. È una proprietà delle persone, delle cose e dei luoghi. Sembrerebbe derivare dalla parola gaelica cosh, che indica un piccolo spazio dove ci si può sentire a proprio agio. In finlandese esiste il termine kodikas, che deriva da koti, ‘casa’, e può essere riferito alle abitazioni, ai mobili e alle persone. Una ragazza kodikas è tranquilla e attraente.
Così devono essere i giardini. Un giardino molto grande è un parco, uno spazio aperto, nulla di intimo. Il giardino è un’estensione dello spazio vitale della casa. Per questo deve essere chiuso: hortus conclusus. Anche per questo deve essere vissuto. Ma vivere un giardino non è limitarsi a contemplarlo e a passeggiarvi. La convivenza è innanzitutto cura […] perché, come diceva [Gregorio] de los Ríos [cappellano e giardiniere della Casa del Campo sotto Filippo II, e autore del primo trattato di giardinaggio], un giardino richiede molte attenzioni. […]
Mi affascinano i giardini umili, realizzati a volte con cinque vasi di fiori. È qui che trovo di nuovo la vita e la conoscenza. Non esigono attenzioni eccessive e educano lo sguardo a riscoprire la meraviglia nel quotidiano, come faceva Monet quando dipingeva a ripetizione le ninfee del suo giardino. […]