È il maggio 2007 quando, reduce – e direi anche provato – dalla traduzione per la padovana Alet di La camicia di ghiaccio, il primo volume della serie dei Sette sogni di William T. Vollmann, sempre dalla benemerita Alet giunge la richiesta di redigere una scheda di lettura di Fathers and Crows, secondo romanzo del ciclo (e volume già in mio possesso, avendolo acquistato poco tempo prima sulla catena di libri usati Abebooks, insieme ad Argall e The Rifle, rispettivamente terzo e sesto capitolo del progetto dei Seven Dreams). Sebbene po’ titubante, considerate la mole del libro e soprattutto la particolarità dell’autore, accetto. Nasce così la mia prima – e inevitabilmente caotica – scheda di lettura ufficiale.
Lettura per: Alet Edizioni
Data: 29 maggio 2007
Lettore: Nazzareno Mataldi
Autore: William T. Vollmann
Titolo: Fathers and Crows
Editore: Viking
Pubblicazione: 1992
Pagine: 990 (870 testo; 120 glossari, fonti e note)
Genere: romanzo (storico)
Giudizio
Volume ricco e abbondante, dietro il quale c’è un grande lavoro di documentazione e ricerca, anche sul campo (come sempre, con Vollmann), il tutto unito a un approccio stilistico unico che mette insieme realtà e mito, cronache fattuali (nell’occasione, riprese in gran parte dalle Jesuit Relations, la traduzione inglese delle Relations des Jésuites de la Nouvelle-France, i rapporti annuali inviati dal superiore delle varie missioni di gesuiti nella Nuova Francia al supervisore in Francia negli anni dal 1632 al 1673), sogni ed esperienze personali (ma molto più contenute rispetto a The Ice-Shirt, il primo volume della serie dei Seven Dreams: non superano la ventina di pagine e, a parte richiami di poche righe nel corso della narrazione, sono concentrate perlopiù all’inizio e alla fine del testo), con l’obiettivo dichiarato di creare «una “Storia simbolica”, cioè un racconto delle origini e delle metamorfosi che, rapportato ai fatti reali come noi li conosciamo, spesso è falso, ma queste falsità disvelano un più profondo senso della verità» (p. 939). E il lettore, giunto al termine di questa lunga maratona di nomi, di luoghi, di fatti, di sogni, di meticolosi e abili affreschi spazio-temporali, non può che apprezzare Vollmann per il lavoro superbo che ha realizzato e ringraziarlo per avergli aperto una finestra su un mondo vastissimo, a lui quasi totalmente ignoto, e gettato i semi di tanti interrogativi che tendono appunto a «un più profondo senso della verità».
Sarebbe dunque bellissimo se un qualsiasi lettore italiano potesse accedere a questo testo nella sua lingua, cioè attraverso una traduzione. Sul piano pratico, o per meglio dire economico (la traduzione in sé non dovrebbe comportare particolari problemi, a parte quelli di natura temporale), vedo però un’eventuale pubblicazione del libro come “un’impresa a perdere”: alla luce di mole e complessità (la narrazione è senz’altro più fluida e lineare di The Ice-Shirt, e anche un po’ più avvincente, ma a tratti risulta sempre piuttosto “pesante”, specie dopo le prime 500 pagine, tale perciò da richiedere ripetute pause), non credo che possa ambire a un pubblico sufficientemente ampio da ripagare l’investimento, almeno non nel breve e, forse, nemmeno nel medio termine.
Ciò detto, è un titolo che nel già superlativo catalogo di Alet non starebbe male, specie se si volesse portare avanti la pubblicazione dell’intera serie dei Seven Dreams, magari insieme ad altri testi più abbordabili (anche se probabilmente non ce ne sono) di un Vollman che, chissà, un giorno potrebbe anche arrivare al Nobel (a mio avviso, ne ha le possibilità).
L’ideale sarebbe poter accedere a qualche contributo (del Quebec/Canada, per dirne una, visto il contenuto del volume?) per rientrare almeno delle spese di traduzione e pubblicazione; viceversa, come dice lo stesso Vollmann nei ringraziamenti finali, sia con Fathers and Crows che con The Ice-Shirt siamo in presenza di libri che «don’t tend to make much money».
Trama e osservazioni
Il libro – che nel suo grosso copre il periodo che va dal 1604 al 1649, ma con inserti, specie all’inizio e alla fine, che ne dilatano la portata temporale, con incursioni anche nel passato più remoto (attraverso la riproposizione di antichi miti e leggende) così come ai nostri giorni (con il racconto delle visite di Vollmann nei luoghi del Canada teatro delle vicende storiche narrate e passi di conversazioni con amici del Quebec che lo hanno aiutato nel lavoro di documentazione. In pratica, la narrazione riparte da dove si era interrotta in The Ice-Shirt, ovvero dalla Nuova Scozia) – narra fondamentalmente l’arrivo dei primi esploratori, mercanti, soldati, missionari (soprattutto gesuiti, le “tonache nere” del libro, allo stesso tempo “padri” e “corvi”, da cui il titolo. Alla loro storia, e in particolare quella del fondatore dell’ordine, sant’Ignazio, sono dedicate parecchie pagine) e coloni francesi nei territori dell’attuale Canada (Nuova Scozia, Nuovo Brunswick, Terranova, Quebec e parte dell’Ontario, in sostanza) che all’epoca costituivano la cosiddetta Nuova Francia e la cui vera ricchezza era rappresentata dalle pelli di castoro (richiestissime in Europa, tanto da portare alla creazione di compagnie – francesi, olandesi e inglesi, principalmente – che, pirati permettendo, se ne contendevano con ogni mezzo lo sfruttamento esclusivo) che ottenevano dalle popolazioni indigene (in qualche caso alleate tra di loro, ma più spesso ferocemente ostili) in cambio di perline e ammennicoli vari, ma soprattutto degli oggetti in ferro (pentole, asce, punte per le frecce e, sul finire, anche archibugi e moschetti) introdotti dagli europei (chiamati collettivamente, non a caso, il “popolo del ferro”).
Questi manufatti in ferro erano così ricercati e ambiti dai nativi che, per entrarne in possesso e godere di un rifornimento continuo ed esclusivo, distinte nazioni indiane si allearono con distinte compagnie europee, combattendo all’opposto selvaggiamente tra di loro (fino a giungere allo sterminio pianificato, nel caso della lega degli irochesi contro gli uroni) e facilitando in questo modo l’asservimento finale agli europei, non bastassero a decimarle e indebolirle al massimo le malattie già introdotte dai nuovi arrivati (da ultimo, specialmente attraverso il consumo di alcol).
Entrare più nel dettaglio della trama vorrebbe dire elencare la miriade di personaggi che compaiono nelle quasi 900 pagine di testo, alcuni dei quali davvero memorabili:
Samuel de Champlain, abile cartografo, fondatore e primo governatore della città di Quebec, che vorrebbe imprimere la sua immagine nell’anima dei “selvaggi” e di cui seguiamo le peripezie e le battaglie per oltre trent’anni;
padre Jean de Brébeuf, il gesuita – con una forza e una volontà eccezionali, e per certi versi un vero “fanatico” della fede cristiana – che guidò la prima missione presso gli uroni, nel 1626-9, per poi ritornarvi nel 1634-41 e 1644-9 e infine essere torturato a morte dagli irochesi nel 1649 (come buona parte dei pochi uroni superstiti). Da qui la canonizzazione nel 1930, al pari di altri colleghi missionari (nonché di Kateri Tekakwitha, indiana morta del 1680 e beatificata nel 1980, la cui figura aleggia spesso nel libro, ma il capitolo che le viene dedicato verso la fine è in realtà breve e di scarso interesse);
Amantacha, giovane figlio di un capo urone, portato in Francia dai gesuiti nel 1626, istruito e battezzato con il nome di Louis de Saincte-Foy, che al ritorno nella sua nazione muore anche lui, brutalmente, per mano degli irochesi;
Born Underwater, enigmatica e sofferta profetessa micmac, figlia meticcia (a seguito di uno stupro) di Born Swimming (che aveva sognato l’arrivo delle “tonache nere”) e del francese Robert Pontgravé (figlio scapestrato di quel François Pontgravé, speculatore, che a ogni occasione importante ritroviamo al fianco di Champlain), e che rappresenta il trait d’union ideale e emblematico di tutto il libro, perché, sebbene spesso nell’ombra e in secondo piano, compare accanto a tutti i personaggi chiave, Amantacha e Bréfeuf in primis.
Ci sarebbe parecchio altro da dire e segnalare su un intreccio assai ricco e per lunghi tratti assai ben riuscito. Dove ho qualche perplessità è quando inizia l’intensa opera di conversione dei gesuiti e in parallelo si moltiplicano le epidemie, le carestie, le battaglie e le cruenti e reciproche torture di irochesi e uroni: in questi frangenti torna quel Vollmann un po’ troppo “ossessivo” che, personalmente, non sempre riesco a mandare giù.
Stile
Lo stile è quello caratteristico di Vollmann, con lunghe e minuziose descrizioni, spezzettamento dei capitoli in tanti paragrafi (alcuni brevissimi, altri interminabili), frequenti digressioni (sebbene molto più contenute che in altri libri), dialoghi sviluppati il più delle volte all’interno di lunghi capoversi (nell’occasione, non racchiusi tra virgolette né introdotti da un trattino lungo, bensì preceduti e seguiti da un doppio spazio), infinite variazioni nell’ortografia dei nomi (ora in inglese, ora in francese, ora come pronunciati dalle varie nazioni indiane), ma il tutto abbastanza scorrevole e godibile alla lettura.
L’autore
Nato a Los Angeles nel 1959, William T. Vollmann è una delle figure di spicco della letteratura americana degli ultimi trent’anni, capace di spaziare tra romanzo e racconto, saggio filosofico e reportage. Di una prolificità impressionante, si fa fatica a elencare tutti i libri che ha scritto; qui ci limiteremo a segnalare il romanzo Europe Central, vincitore del National Book Award per la narrativa nel 2005 e pubblicato con lo stesso titolo da Mondadori nel 2010. Tradotto nel corso degli anni in Italia da Fanucci, Mondadori e Alet, attualmente l’intera opera di Vollman, a partire dal ciclo dei Sette sogni, è oggetto di una sistematica (ri)pubblicazione presso minimum fax. Quanto al volume Fathers and Crows di cui sopra, è stato pubblicato in Italia nel 2011 da Alet con il titolo Venga il tuo regno, per la traduzione di Massimo Bocchiola e Micol Toffanin.