Adrienne Miller, “The Coast of Akron”
L’esordio narrativo della prima donna, dal 1997 al 2005, responsabile delle pagine letterarie di «Esquire», ruolo in precedenza ricoperto da figure leggendarie come Gordon Lish e Rust Hills
Come primo contributo esterno, la pubblicazione di una scheda di lettura della scrittrice e traduttrice
, realizzata in occasione di un corso di scrittura.Scheda di lettura di: Franca Di Muzio
Data: 14 aprile 2008
Autrice: Adrienne Miller
Titolo: The Coast of Akron
Editore: Farrar, Straus and Giroux
Pubblicazione: maggio 2006
Pagine: 390
Genere: romanzo
Giudizio
Una corposa, filmica tragicommedia degli inganni. Pensate a Le fate ignoranti in salsa camp, ambientatele in Ohio, aggiungete il tocco (più elegiaco che divertente) di Woody Allen, et voilà, capirete perché “On Ne Peut Pas Vivre Seul”: il motto domestico reiterato nel corso del romanzo.
Il paragone col cinema viene spontaneo, dato che The Coast of Akron è un libro molto “visivo”. Ricco di rimandi a figure come Andy Warhol, Leo Castelli, Gilbert&George, Cy Twombly, solo per dirne alcuni, il romanzo illustra, attraverso le vicende di una moltitudine di personaggi-icone, il confine sempre più labile tra apparenza e realtà, aspiranti artisti e vera arte, nonché la natura sempre più contemporanea di quest’ultima, svelando le molteplici contaminazioni che determinano la nascita di un’opera: nella fattispecie, l’ego-riferito di Lowell, la “mano” pittorica di Jenny, l’“occhio” fotografico di Fergus.
Per queste sue caratteristiche sarebbe opportuno inserire il romanzo in una collana diretta a un pubblico di cultura medio-alta, magari appassionato d’arte (contemporanea, angloamericana), come la stessa autrice del resto. Ex editor newyorkese ben lungi dal sembrare alla sua opera prima (Julia Glass docet), Adrienne Miller è riuscita ad orchestrare un romanzo singolare ed avvincente. L’effetto-calamita non tarda ad arrivare: i lettori sono immersi da subito in un groviglio di storie, ma prima che riescano a capirci qualcosa ce ne vuole. Una volta afferrato il meccanismo narrativo, ci si perde e si resta invischiati fino alla fine. Una fine che però non c’è, almeno non nel senso classico del termine.
Trama e osservazioni
Caleidoscopico festival di superfici parlanti, vite fittizie e tradimenti reali, il romanzo prende le mosse dallo stesso luogo in cui andrà a concludersi: la fantasmagorica dimora ricostruita in stile Tudor “On Ne Peut Pas Vivre Seul”, prossima sede di una festa in maschera in onore della performer Drisana-Nari, e si conclude (per modo di dire! Il finale aperto infatti lascia il lettore rabbiosamente libero di immaginare conclusioni su conclusioni possibili) a party inoltrato, in una serata rabbuiata dalle ombre di vendette plurime. Vendette motivate dal principe dei motivi: l’amore.
Se l’amore è una folie à deux, quella di Jenny Meatyard e Lowell Haven diventa una folie à trois, quando nella loro simbiotica unione1 si insinua la figura di Fergus Goodwyn, gayo nouveau riche per eredità, figura carismatica e fragile, personaggio di spicco del jet-set americano complessato e autodistruttivo, ipocondriaco affetto da perenni allergie; prima avversario di Lowell nel cattivarsi le sororali attenzioni di Jenny, poi perdutamente innamorato di quest’ultimo.
Una follia che dall’eterosessuale ingenua al bisex egocentrico all’omosessuale masochista sembra poi contagiare tutti i personaggi del romanzo, diventandone la cifra esistenziale dominante: ognuno pare sospirare, come il narciso Lowell: “Oh, Me, Me!”, oppresso dal peso del proprio io, sviscerato e intrecciato a quello degli altri nel corso di 390 pagine dall’autrice con mano sapiente e sicura. La Miller, burattinaia dal tocco magistrale, si rivela infatti abilissima nell’alternare le loro vicende senza dare la minima impressione di artificiosità.
“Gioiello” (cfr. nota 1) della coppia Jenny-Lowell è la figlia Merit Haven Ash, impiegata che vende spazi pubblicitari per conto della rivista «Ohio Is», sposata con un uomo decisamente “square”: il compulsivo-ossessivo statistico Wyatt. Merit che non ha ereditato il temperamento artistico dei suoi strambi genitori, ma una decisa propensione allo squilibrio affettivo sì: tradisce il marito durante quelli che chiama “slippages” occasionali, compiuti con ruspanti giovanotti mai al di fuori del suo controllo.
Pagina dopo pagina, tra memorie e flussi di coscienza, ricostruiamo i primi otto anni dell’infanzia di Merit, trascorsa insieme ai genitori nella gabbia dorata della “Tudor mansion” di Fergus in un clima sempre più ambiguo; finché Jenny, anello debole della catena amorosa, si “rompe” della situazione e, preoccupata del suo influsso sulla crescita della figlia, fugge abbandonando i due uomini. Un’infanzia e una crescita solo parzialmente salvate, perché Merit crescerà chiedendosi cosa ci fosse dietro agli episodi penosi vissuti da bambina (la madre che piange di notte abbracciandola come se fosse una scialuppa di salvataggio, le liti furiose con “zio” Fergus, le battute di Lowell), e lo scopre solo dopo aver letto i diari della madre, ambientati dapprima nella Londra dei Sex Pistols, Mary Quant, Johnny Rotten e Vivienne Westwood, poi nella New York warholiana popolata di artisti, galleristi e collezionisti. Solo allora Merit farà outing a scuola, confessando che la vera autrice delle opere del padre è in realtà sua madre (e qui la Miller ci infila una gustosa parodia del femminismo nella figura dell’insegnante che si indigna). E non sarà la sola: anche Fergus vorrà svelare gli inganni di cui è stato vittima a un giornalista impaziente di fare lo scoop della sua vita, vendicandosi così dei ripetuti tradimenti di Lowell; e che dire della rediviva e pericolosamente brilla Jenny, anch’essa presente al party, che nasconde chissà cosa sotto un’ampia mantella nera?
Il libro si chiude proprio sotto gli auspici funesti della verità che vien fuori, in un finale esplosivo in tutti i sensi: con la “Tudor mansion” di 65 stanze e innumerevoli cabine telefoniche diventata ormai regno assoluto del kitsch, affollata di celebrità vere e finte, abitata da ospiti e domestici semipermanenti ed animali rigorosamente femmina (la scrofa Arabella, l’emù Anita), in ossequio al motto che la caratterizza: “On Ne Peut Pas Vivre Seul”. Ed è appunto il terrore della solitudine che anima le principali dramatis personae del romanzo, gettandole inesorabilmente in pasto ad amori finti come “la costa di Akron”, città famosa non certo per le sue attrattive naturalistiche quanto per essere la maggior produttrice al mondo di pneumatici, «la capitale mondiale della gomma».2
C’è molto altro, ovviamente. Cercare di riassumere la trama di The Coast of Akron non rende affatto giustizia a tutta una serie di personaggi di contorno molto ben tratteggiati e definiti, assolutamente credibili e indispensabili: il giovane, estroverso stagista Randy, amante di Merit; il giornalista dall’indole paparazza Bradley W Dormer; il sensibile innamorato di Fergus, Preston Lympany; la coppia di punk con cui la giovane Jenny divide un appartamento a Londra; l’ultima amante di Lowell, la rigogliosa Drisana-Nari; l’adolescente Caroline, figlia di primo letto di Wyatt; Andrei, l’ambiguo servo-tuttofare dal look etnico; una serie di pederasti inglesi regolarmente maritati; eccetera eccetera.
Stile
Contenuto e forma coincidono: a tale mix narrativo corrisponde un mix sorprendente ma armonioso di stili che tengono il lettore costantemente sul chi vive. Una tale congerie di storie e personaggi richiede infatti uno stile quanto mai vario e vivace: di capitolo in capitolo, spesso di paragrafo in paragrafo, si passa dal diario intimo di Jenny al flusso autodistruttivo di coscienza di Fergus a quello di Merit ricco di gergo camp, al giornalismo pseudoculturale delle interviste patinate, con un tono dal disincantato allo struggente a seconda di quale dei personaggi racconti o venga raccontato, in un’alternanza continua di prima e terza persona, distanza e vicinanza, distacco e compassione.
La prosa, ricca di metafore, punteggiata di espressioni slang, modi di dire, giochi di parole, neologismi darà filo da torcere ad un eventuale traduttore; ma è una sfida che può essere vinta. Magari da Aldo Busi!
L’autrice
Nata nel 1972 a Columbus, Ohio, nella primavera del 1994 Adrienne Miller, fresca di college, iniziò a lavorare per il magazine «GQ», finendo per diventarne vicedirettore. Nel 1997, assunse l’incarico – prima donna a farlo – di responsabile delle pagine di narrativa del prestigioso mensile «Esquire» (ruolo in precedenza rivestito da figure leggendarie come Gordon Lish e Lawrence Rust “Rusty” Hills), con l’obiettivo di rilanciarle, dopo un periodo di declino. In questa veste, che mantenne fino al 2005, e come racconta nel memoir del 2019 In the Land of Men, avrebbe «scoperto molti nuovi scrittori e lavorato con molti giganti», primo fra tutti David Foster Wallace, con il quale stringerà anche un rapporto di amicizia. Del 2005 è The Coast of Akron, il suo esordio narrativo e a oggi l’unico romanzo. Da segnalare, su «Vogue» del marzo 2018, il racconto delle molestie sessuali subite durante il suo lavoro per «GQ» e «Esquire».
Una fusione espressa anche nel neologismo “Jewell” che indica la coppia, ricalcando il sostantivo “jewel”. I due respirano lo stesso respiro: più precisamente, Lowell risucchia l’aria dai polmoni di Jenny, quasi a prendere vita (artistica, come si vedrà) dall’annullamento di lei.
L’ossessione per gli pneumatici domina molti personaggi maschili del romanzo; perfino i meno macho come Lowell e Fergus non possono fare a meno di esclamare spesso, con ammirazione e deplorazione insieme: “Tyres!”