In questi giorni di inizio 2025 ripenso spesso al mio clima umorale di trent’anni fa, nel medesimo periodo: non era il massimo; anzi, ero proprio giù di corda.
Non avevo per niente chiaro che cosa fare della mia vita dopo aver chiuso con gli studi di fisica quasi a un passo dalla laurea, avere assolto agli obblighi di leva (da obiettore di coscienza, prestando per un anno servizio civile in un comune non lontano da casa, curando – a turno con quattro colleghi – l’accompagnamento a scuola di una bambina con handicap, il trasporto di anziani bisognosi di cure riabilitative, la consegna dei pasti dalla mensa scolastica alla materna, servizi di assistenza nella locale casa di riposo e altre mansioni accessorie sempre nell’ambito comunale. Sotto ogni punto di vista, un anno ben speso e di cui conservo un ottimo ricordo) ed essermi poi diviso tra lavori vari, comprese le primissime traduzioni – battute a macchina!
(Non avevo ancora un computer, solo un fax; il primo pc sarebbe arrivato nella primavera appunto del 1995, seguito poco dopo dal primo modem e dal primo abbonamento a internet.)
Per un po’, nel 1994, mi ero interessato anche di politica, aderendo a una neonata associazione cittadina, contribuendo tra l’altro a organizzare un incontro con due collaboratori della rivista «Reset» di Giancarlo Bosetti.
Presto sarei però tornato a starmene quanto più defilato, intensificando le letture (sotto questo profilo, credo che quello sia stato il mio periodo più formativo) e, a margine, riuscendo a buttar giù anche diverse poesiucole (all’epoca, il mio modo privilegiato di esprimermi. Email e post erano ancora molto là da venire).
Fatto sta, il dicembre 1994 si era chiuso su queste note:
Fuggevole
dileguo la mia vita
scivolando lungo i giorni
tra silenzi e incanti.
Non mi lascio mai afferrare
inquieto o errante
sempre alla ricerca – ma di che cosa?
A me stesso sfuggo, o forse no,
concupito a questo e a quello,
variamente illuso o ingenuo e annoiato,
e mai a un dunque.
Pure mi ostino a voler trovare, un dì,
cosa che mi dia sollievo e un po’ calore
non solo effimero.
*
Soffro, ogni volta, a rivedere un volto che fu con me bambino;
soffro a non sapere io che dire, a restare muto o a svicolare.
È che da tanto ho posto fine a ogni mia ri-uscita,
a ogni mio ritorno in gioco con la cerchia che fu adolescenziale.
È che crescere ci fa distanti, ci perde l’uno all’altro;
ed è imbarazzante fingere di essere sempre noi, gli stessi di un tempo andato.
È che a nessuno è dato riprendere dal punto in cui ha interrotto1.
Il gennaio 1995, invece, era stato proprio un getto continuo di schizzi-di-versi, dal tono ora mestissimo ora elegiaco. Li riporto sotto, in memoriam.
Deludente il clima
con un’aria di scirocco
il giorno ultimo dell’anno.
Avrei desiderato neve
in fiocchi vaporosi a scendere dal cielo
con un’idea di fragranza e leggerezza.
Le nubi invece sanno di niente,
sbiadite in volo solo a coprire il sole
richiamano una realtà un po’ mesta,
l’inevitabile atmosfera che reca in sé ogni festa.
*
Gli incanti della solitudine
e i silenzi estatici:
questi i fulgori
della vita erratica.
Momenti intimi, nascosti,
emozioni estreme,
vicinanza all’assoluto,
nulla cangiante,
puro vibrare.
*
Nuvoli densi, la sera, dal monte.
Promettono neve.
Neve scesa nella notte, velluto soffice.
Al mattino il piede affonda, fuma lo sterco.
È silenzio intorno, fare ridotto.
La neve cresce, in larghi fiocchi.
Mi affaccio, e mi riaffaccio, fuori.
Un guardare ipnotico.
Corrente che va e ritorna.
Tempo che pare attonito.
*
La notte
è ferma, è algida.
Giace distesa, la luce al minimo.
Nessun fuoco arde
che riesca a riscaldarla.
*
Sabato sera. Nel letto, presto, che leggo,
ché non riesco a far meglio. Ho freddo,
freddo nel cuore, freddo di solitudine e buio.
Pur non mi do grossa pena. Solo
ogni tanto una lacrima, fuggitiva, scivola via.
*
È male così
nella pienezza di vita
non avere a che andare
salvo a un’immagine trita:
leggere, sonnecchiare,
fugare i giorni di festa.
Ma del resto?!
*
Nei minuti e le ore
nelle crepe dei giorni
nelle fratture del sonno:
è la vita che si apre
al pensiero di sé,
imperante, acre.
*
La neve quale bambagia
si libra a sera nell’aria
subitanea a un colpo di vento comparsa;
così immateriale, così voluttuosa
sotto le luci dei fari per strada
da desiderare che tanta ne cada.
*
In squarci di tuono
e nubi scure da est
viene giù neve
a gragnuola.
*
Le sere a me care
con la lampada accesa a spargere soffice luce
nella camera esposta al sorgere del sole;
le auto sulla strada del piano che ronzano,
il sibilo della tramontana sui vetri,
d’inverno, quand’è che ha nevicato.
Entro di me note di silenzio letargico,
risalto d’oblio.
*
La notte tacita;
e lentamente avanza
a implicar sussiego,
rafferma alla serena
in un manto vitreo.
*
Nei giorni a finire gennaio
in atavica noia profondo
in ambascia. Io come tanti
in narcisistica angoscia.
*
Il primo tiepido sole
che ravviva le membra poltrite
quasi già a febbraio
che rispolvera i tenui colori di verde
in felicitazione. Il vento
giocoso tra i capelli e musicale
l’onda fluente del mare.
*
Pioggia, pioggia minuta e leggera,
pioggia che attrae, che blocca la mente.
E passeri, passeri sui rami e sui tetti,
passeri a battibeccarsi, a fare toeletta.
E auto, auto sulla strada che sciacquano.
E silenzio, intimo voluttuoso silenzio;
con un gemito, languido, d’inverno.
*
L’ombra.
L’ombra della straniata vita
sui giorni brevi e foschi
di un surplace protratto.
L’ombra amicale serotina
che reca in sé dolcezza.
L’ombra notturna e tenue
dei pensieri motili nel sonno.
*
Gioventù.
Gioventù in corsa, gioventù bizzarra,
obliqua.
Strano destino il tuo
che ti decantano.
Bella a volere, sì;
più da presso ostica
devi apparire.
*
Questa tristezza che cos’è?
che ci invade, che ci opprime,
ci dilania.
Frase di Ingeborg Bachmann in Il trentesimo anno (trad. di Magda Olivetti, Adelphi, 1985).