I dubbi di Andrić
Un testo del 1992 dello scrittore e sceneggiatore serbo bosniaco Vuk Krnjević, in una traduzione del 1993 mai pubblicata e ora rivista e corretta
Nell’estate del 1993, mentre svolgevo il servizio civile, ci fu il mio secondo approccio ufficiale alla traduzione. Dall’amata rivista trimestrale europea di cultura «Lettera internazionale» (oggi purtroppo defunta), la stessa dove avevo esordito l’anno precedente con un saggio del politologo israeliano Shlomo Avineri intitolato “L’eredità di Marx”, ricevetti l’incarico per tre testi dall’inglese che in vario modo avevano per tema la guerra (era la seconda fase dei devastanti conflitti etnici nella ex Jugoslavia, esplosi in tutta la loro virulenza nella Bosnia-Erzegovina, dopo aver già investito le enclave serbe in Croazia). Due – il saggio “Il linguaggio della guerra” dello studioso serbo Ranko Bugarski, e il racconto “La guerra può ricominciare” dello scrittore sudafricano Michael Du Plessis – sarebbero stati pubblicati sul numero 37, luglio settembre 1993, di «Lettera»; il terzo – il saggio “I dubbi di Andrić”, dello scrittore e sceneggiatore serbo bosniaco Vuk Krnjević (1935-2018) – per qualche motivo rimase fuori. A oltre trent’anni di distanza, e dopo averne già proposto alcuni passi sul mio sito ufficiale, propongo qui sotto per intero quest’ultimo pezzo, in una traduzione ora rivista e corretta. (nm)
| di Vuk Krnjević |
Nel caso di Ivo Andrić la riedizione dell’opera completa non è un omaggio alla sua straordinaria impresa letteraria, ma risponde a un bisogno autentico di rileggere, per capirlo e appropriarsene, questo prezioso lascito culturale che sonda e risolve il destino umano. Specialmente oggi che le spinte sanguinarie invadono gli spazi della nostra tradizione scritta e della mente cosciente, è di particolare interesse e stimolo quella parte dell’opera di Andrić non pubblicata in vita e rivelata solo dopo la sua morte. Dopo Znakovi pored puta (I segni lungo la strada), ogni frammento, ogni nota, ogni commento e suggestione offrono elementi per un’interpretazione nuova dei testi pubblicati in vita e consentono il gioco intellettuale di ricostruire le parti mancanti della sua grande opera.
Alla luce di quanto accade oggi nei Balcani,1 è un puro caso se il romanzo incompiuto Omerpaša Latas (Omer-pascià Latas) sembra aver intuito e anticipato le scene di cui quotidianamente riferiscono televisione e giornali? Che cosa salta agli occhi subito? «Solo gli ignoranti», scrive Andrić nel 1960, «possono pensare che il passato sia morto e separato per sempre dal presente da un muro invalicabile. È vero il contrario: qualunque cosa sia stata pensata, sentita o fatta una volta contamina i nostri attuali pensieri, sentimenti e comportamenti».
La cronaca di Travnik è probabilmente l’esempio migliore del tentativo continuo di Andrić di interpretare i destini individuali e collettivi, di stabilire quanto del passato resiste nel presente; in particolare l’idea di des Fossés che «un popolo, per riuscire a conquistare un modo di vita più sano razionale, non [deve] necessariamente rinunciare alla propria fede e alle proprie credenze».2
«Com’è possibile», domanda des Fossés, «che questo paese viva in pace, si sviluppi e accetti almeno la civiltà che possiedono i suoi vicini, quando il popolo è diviso più che in ogni altra parte d’Europa? Quattro religioni convivono su questa striscia di terra montuosa e povera. Ognuna è esclusiva e rigidamente separate dalle altre. Vivete tutti sotto lo stesso cielo e sulla stessa terra, ma ognuna di queste quattro religioni ha il centro della sua vita spirituale lontano, in un universo straniero, a Roma, a Mosca, a Istanbul, alla Mecca, a Gerusalemme e Dio sa dove altro, ma certamente non qui dove venite al mondo e morite. Ogni comunità ritiene che il proprio benessere e il proprio utile si possano realizzare solo a spese delle altre tre e che il progresso di quelle tre possa verificarsi solo a proprio svantaggio. Ognuna di loro ha fatto della propria intolleranza la virtù più grande e attende la salvezza da un intervento esterno, ciascuna da una direzione diversa».3
È nel frammentario, nell’incompiuto che affiora il dubbio che tutta contesta, persino l’opera compiuta e rifinita; è l’incompiuto che suggerisce la possibilità di riscoprire i percorsi dei destini individuali e collettivi. Nei Balcani questi percorsi vanno rintracciati nell’esperienza condivisa, nella tolleranza e nella complessità della fondamentale esperienza comune di «non rinunciare alla propria fede e alle proprie credenze» per «conquistare un modo di vita più sano razionale».
Nei momenti di dubbio, prestando ascolto non solo al richiamo della civiltà ma anche agli interrogativi enigmatici avvertiti negli intervalli bui della memoria storica, Andrić scriverà: «Queste persone hanno sofferto così tanto per il disordine, la violenza e le ingiustizie da avere sviluppato una propensione all’inimicizia e alla ferocia. È gente la cui esistenza, amara e inutile, trascorre tra brutte disgrazie, pensieri di vendetta e occasionali rivolte. Sono individui insensibili e sordi a qualunque altra cosa. Ogni tanto viene da chiedersi se lo spirito della maggioranza degli abitanti dei Balcani non sia avvelenato per sempre e se mai essi saranno capace di altro, a parte subire ed esercitare la violenza».
Quest’interrogativo, espresso da Andrić dopo l’esperienza della Grande guerra, investe molti di noi come una domanda a cui trovare una risposta solo da quando l’individuale e il collettivo sono di nuovo diventati un tutt’uno in termini di destino umano. La verità, come scriveva Andrić nei momenti di dubbio, è che «qualunque cosa sia stata pensata, sentita o fatta una volta contamina i nostri attuali pensieri, sentimenti e comportamenti».
“I segni lungo la strada” non sono perciò qualcosa di incidentale: testimoniano i dubbi permanenti che inducono persino chi possiede una certa saggezza – specialmente costoro – a riconsiderare le cose fatte e ultimate, così come quelle lasciate a metà e non ancora chiarite. Questo è un gesto tipico di ogni autore.
Nel 1956 Andrić scriveva: «Chi legga tutti i testi di un autore troverà che costituiscono un blocco omogeneo, nonostante le contraddizioni e i salti che l’opera di uno scrittore contiene e deve contenere. Il lettore procede di volume in volume come se camminasse lungo una bella strada fiancheggiata da case a schiera, e tutto appare come un’unità più o meno strutturata. Questo lettore si ferma a un certo punto dell’opera, la scorre cronologicamente all’indietro e vede i vari lavori come un corpo unico e nella loro continuità, caratteristiche che non possono aver posseduto nel momento in cui furono scritti, uno a uno, lentamente e con fatica, nei lunghi e turbolenti periodi della vita di un autore. Invece lo scrittore, se non in preda al classico abbaglio, riconosce nel suo lavoro un difficile percorso in salita, un lungo tracciato, contorto e sconnesso, sul quale si affacciano edifici isolati e parchi, lungo cui ci sono lotti ancora vuoti, cantieri abbandonati e persino case bruciate. Egli riconosce ogni fallimento, tutti i parti dell’immaginazione, tutti i punti controversi e le discontinuità».
L’autocoscienza di Andric ha sempre tenuto in conto l’irrealizzato, i «lotti vuoti», i «cantieri abbandonati», persino le «case bruciate». Questi spazi lasciati inutilizzati, non colmati, non intervengono solo a livello estetico, e sono fondamentali per l’interpretazione del destino umano e di quelle congetture sul destino, subconscie e metafisiche, che si dovrebbero ricercare nelle giacenze del passato tanto quanto nel presente. In un passo di Znakovi pored puta Andrić dice: Ho sempre voluto descrivere quello che vedo ed esprimere quello che provo». Qui, il verbo vedere va inteso in rapporto al destino, cosa che nel nostro linguaggio presuppone sia un giudizio di valore che l’atto di presagire. Vedere e prevedere si identificano. Nell’impellente bisogno di Andrić di descrivere ciò che vede e intuisce, ed esprimere ciò che prova, si rinviene l’atteggiamento cartesiano tipico dello spirito europeo, che tende a esprimere solo quanto percepito e a perseguire la ricerca del solubile. Di qui le case bruciate, accanto ai cantieri abbandonati.
Da questa ricerca Andrić ha tratto la forza per continuare a sperare nella sopravvivenza anche nei momenti peggiori e più disperati: la sua visione del destino umano, benché dominata dall’idea del male e della distruzione, lascia sempre adito a delle possibilità di palingenesi. Le quali, seppur incerti e lontane, permangono a garanzia dell’indistruttibilità umana.
Oggi che nei Balcani infuriano le spinte sanguinarie e alla televisione vediamo bruciare le case, con il fumo che dagli schermi entra nelle nostre stanze facendoci credere che stia succedendo proprio a noi, è grazie a questo, è grazie a questa speranza, che l’affermazione finale di Andrić nel saggio “Una veduta di Sarajevo” assume un valore profetico su come sia importante decifrare il destino di ogni cosa esistente: «A qualunque ora del giorno, da qualunque collina si guardi Sarajevo, istintivamente si ha sempre lo stesso pensiero. Questa è una città. Una città che deperisce e muore, ma allo stesso tempo rinasce e si trasforma».
I dubbi di Andrić diventano i nostri dubbi: «Ogni tanto viene da chiedersi se lo spirito della maggioranza degli abitanti dei Balcani non sia avvelenato per sempre e se mai sarà capace di altro, a parte subire ed esercitare la violenza».
L’autore scrive nel 1992. (NdT)
Ivo Andrić, La cronaca di Travnik, traduzione di Dunja Badnjević, Mondadori, Milano 2001, p. 283.
Ivi, p. 282.