Detto negli ultimi post del libro e dell’autore dell’anno, e prima di far prendere a «Le didascalie» una pausa natalizia, voglio accennare a una mia traduzione che a oggi considero, se non la più bella e riuscita, una di quelle che sicuramente ho amato di più: Le stelle si spengono all’alba dello scrittore nativo canadese Richard Wagamese (1955-2017), titolo originale Medicine Walk (“il cammino della cura”), pubblicata da La Nuova Frontiera nell’ottobre 2021, dunque poco più di tre anni fa.1
Il primo motivo per cui vi sono particolarmente affezionato è perché fu il risultato di una lettura dell’originale fatta per conto mio a fine 2018, insieme a un altro romanzo di Wagamese: Indian Horse (pubblicato in Italia da Bompiani nell’autunno 2019, con il titolo Cavallo indiano, sulla scia di una recente trasposizione cinematografica per la produzione di Clint Eastwood). A quella lettura feci subito seguire una segnalazione all’editore di cui sopra, sapendo di un suo interesse per i temi trattati e in particolare per l’ambientazione (perlopiù, fra le foreste delle Rocky Mountains canadesi). Fortuna e preveggenza vollero che, a distanza di un anno e mezzo, il libro fosse ritenuto degno di far parte della neonata collana “La frontiera selvaggia”, al che, con mia somma gioia, me ne vidi prima proporre e poi assegnare la traduzione.
Secondo e forse più importante motivo del legame speciale con questo libro è che mi sono ritrovato a tradurlo – parlo al passato prossimo perché mi sembra ieri, sebbene siano passati tre anni – negli ultimi dolorosi mesi di vita di papà, nei ritagli di tempo tra le cure che gli prestavo a casa, insieme a un’inesauribile mamma, e un sempre più frequente andirivieni con il reparto trasfusionale dell’ospedale, quando non il Pronto Soccorso (l’ultima tranche rivista delle bozze l’ho spedita proprio dalla sala d’attesa di quest’ultimo, prima di essere cacciato fuori, all’epoca non potendo i familiari prestare assistenza ai degenti, visto il perdurare dell’emergenza Covid-19).
Insomma, come nel romanzo il giovane protagonista Frank accompagna nel viaggio finale verso la morte il padre naturale Eldon (alcolizzato e fino ad allora pressoché assente dalla sua vita), durante i mesi concitati di questa traduzione in qualche modo facevo lo stesso anch’io, con papà, seppure i rapporti tra di noi fossero tutt’altra cosa rispetto a quelli intercorsi tra Frank ed Eldon.
Sia stato per questo o per altro, non esito a dire che alla fine è venuta fuori una buona traduzione, forse persino ottima (a giudicare da diverse recensioni più che elogiative).
A questo romanzo devo inoltre il merito di aver riacceso in me il desiderio di tornare a camminare in montagna, dopo anni che me ne ero tenuto piuttosto lontano. E così sarebbe stato da lì a pochi mesi, previa iscrizione al CAI, forse la decisione migliore degli ultimi anni.
Alla luce di ciò, oltre a linkare alcune recensioni che ho apprezzato (per tutte le altre rimando al sito dell’editore), mi piace riportare sotto due passi: il primo sul rapporto di Frank con la solitudine; il secondo, legato al Natale, sul rapporto tra Frank e il padre naturale prima che quest’ultimo si riaffacciasse nella sua vita con la richiesta di accompagnarlo nell’ultimo viaggio terreno.
Era grande per la sua età, ossuto e spigoloso, con un’espressione seria, quasi arcigna, ed era così taciturno da apparire spesso imbronciato, malinconico, pensieroso. Nulla di tutto ciò. Era cresciuto avvezzo a stare da solo e faceva un uso parsimonioso delle parole, schietto, diretto, più da uomo che da ragazzo. […] Era un indiano. Il vecchio gli aveva detto che era quella la sua natura e lui gli aveva sempre creduto. La sua vita consisteva ora nel cavalcare in totale solitudine, ripararsi sotto rami di abete, accendere fuochi per la notte, respirare aria di montagna dolce e pura come acqua di sorgente e percorrere sentieri invisibili a occhi inesperti, ma che lui aveva imparato a riconoscere, seguendoli fino ad altezze dove arrivavano solo puma, marmotte e aquile. Il vecchio gli aveva insegnato quasi tutto quel che sapeva, ma ormai era in età troppo avanzata e troppo impedito nei movimenti per montare ancora a cavallo, così negli ultimi quattro anni era andato in giro perlopiù da solo. Per giorni, a volte settimane. Solo. Non aveva mai avvertito un senso di solitudine. Anche spaccandocisi la testa, non avrebbe saputo dare un significato a quella parola. Risiedeva in lui indefinita e inutile come l’algebra; la terra, la luna e l’acqua esprimevano l’unica equazione che dava forma al suo mondo, un mondo che percorreva a cavallo sazio e a proprio agio, sentendo la terra intorno a sé come il ritornello di un vecchio inno. Era ciò che conosceva, ciò di cui aveva bisogno.2
Le lettere riguardo al Natale cominciarono il settembre successivo. Non aveva avuto più notizie da suo padre dalla notte del convegno carnale. Le lettere descrivevano il tacchino, il banchetto che ne sarebbe scaturito, la spedizione di mezzanotte con le ciaspole per procurarsi l’albero da caricare poi su una slitta. Facevano anche vaghi riferimenti a dei regali. In risposta, il ragazzo scriveva di riunioni intorno alla stufa a legna nella casa del vecchio, intonando vecchi canti natalizi e ascoltando il freddo che faceva scricchiolare la copertura in legno del tetto. Ogni lettera aggiungeva qualcosa e, pur contro la sua volontà, il ragazzo sentiva crescere l’eccitazione.
Lui e il vecchio non davano mai molta importanza al Natale. C’erano sempre un paio di regali, ma tendevano al pratico: un coltello da caccia, filo per le trappole, una nuova cavezza per il cavallo, una coperta per la sella e così via. Non si facevano però mancare il tacchino, torte comprate in negozio e un barattolo di caramelle. Per il ragazzo Natale significava la quiete, e la parte più bella era la lunga uscita che facevano lui e il vecchio mentre il tacchino arrostiva. Ogni anno sceglievano un percorso diverso. Ciaspolavano per un paio d’ore, accendevano un fuoco e bevevano tè forte, e in quel mondo freddo e spoglio il Natale per lui finì per assumere il significato del periodo dell’anno in cui il paesaggio, così spoglio, era perfetto. Ogni tanto il vecchio gli raccontava una storia. Ma ciò che amava di più era l’incanto del silenzio attraverso cui camminavano. L’atmosfera ovattata dove ogni suono veniva assorbito e riassunto nella grande sacralità bianca dell’inverno. Nella sua mente il Natale era questo.
«Non ti assillare troppo su questa cosa» disse il vecchio.
«Giusto» rispose il ragazzo, anche se non riusciva a trattenere l’eccitazione che sentiva crescere dentro di sé, lettera dopo lettera. Le promesse si sprecavano. Sarebbe arrivato con la corriera e avrebbero festeggiato. Crebbe così l’attesa. Ma quando andarono ad aspettare la corriera in città, due giorni prima di Natale, suo padre non c’era. Aspettarono anche quella dopo. Sentiva intanto salire il sale delle lacrime nella gola e si dava dell’imbecille per la sua debolezza. Ma solo quando la nuova corriera girò l’angolo vicino al parcheggio, e lui e il vecchio stettero a guardarla mentre se ne andava, solo allora sbottò.
«Figlio di puttana!» disse, prendendo a calci un grosso pezzo di ghiaccio.
Il vecchio rimase a guardarlo. Il ragazzo pestava i piedi in circolo e picchiava i pugni contro le cosce, sentendo montare la rabbia. Gli tremava la mandibola, tanto era forte il bisogno di piangere, di lamentarsi, di urlare. Alzò i pugni in aria e cadde in ginocchio sulla neve.
«Frank» disse il vecchio. «Frank. Non avrei mai dovuto permettere che ti si avvicinasse.»
«Non ce l’ho con lui» disse il ragazzo. «Ce l’ho con me.»
«Tu hai fatto quello che farebbe chiunque» disse il vecchio.
Il ragazzo si sedette sulle gambe, con le ginocchia ancora sulla neve. «Dopo tutto quello che ho visto?»
«Non puoi prenderti la colpa di essere un bambino.»
«Io sapevo come stavano le cose, cazzo, e non sono un bambino.»
«Tu hai un cuore, tutto qui. Non c’è motivo di vergognarsene.»
«In questo momento mi sento solo a pezzi e offeso.»
«Ma devi passarci sopra.»
«Perché?»
«Non hai altra scelta.» Il vecchio sollevò il mento del ragazzo. Stavano tutti e due inginocchiati in mezzo alla neve e al fango, con i pantaloni completamente zuppi. «Stai meglio adesso?» domandò.
Il ragazzo si pulì il naso con una manica. «Ci starò» disse.
«Sì. Ti riprenderai. Lo so.»
Al ritorno alla fattoria si era già buttato tutto alle spalle, pronto a riprendere la sua vita prevedibile, con la sensazione confortante e reale data dal calore della stufa a legna sulla sua faccia.3
Buon Natale!
Nel mio recente approdo su Substack sto istintivamente adottando lo stesso approccio di quando, nella seconda metà degli anni Zero, prima su Splinder e poi su WordPress, tenevo in piedi vari blog. All’epoca avevo fatto mia la filosofia in base alla quale «allestire un blog (nuovo o riveduto) è un po’ come definire i contorni di un proprio spazio abitativo (nuovo o riveduto). Dapprincipio tendi a portarvi alcune delle cose che più ami: citazioni, canzoni ecc., sorta di mattoni con i quali edificare gli elementi portanti della nuova architettura; aggirandoti tra i quali, e ad essi variamente ispirandoti, cercherai via via di aggiungere qualche composizione di fattura più squisitamente personale». È per questo se anche qui, al momento, sto perlopiù riciclando materiale già apparso altrove o che tenevo nei cassetti: di veramente nuovo, studiato ad hoc, c’è pochissimo. Nel 2025 spero di variare un po’ registro.
Richard Wagamese, Le stelle si spengono all’alba, traduzione di Nazzareno Mataldi, La Nuova Frontiera, Roma 2021, pp. 14-15.
Ivi, pp. 144-146.